Sempre di più si sente che la solitudine è uno dei grandi pesi della situazione in cui siamo: solitudine nella malattia e nella vecchiaia che isola e spaventa, solitudine nel lutto, solitudine nelle fatiche economiche, mancanza di compagnia… Viviamo isolati, in case vuote o poco densamente popolate o bellissime da fuori ma in cui dentro ci sentiamo come in un vecchio rudere, con pochissime relazioni con i vicini e pochi o nessun gruppo di appartenenza.
La proprietà privata e la privacy, la libertà di “fare quello che voglio” quando si è a casa si sta trasformando nel nostra più grande peso.
Non solo per la solitudine oggettiva e per tutto quello a cui ci espone (la fatica di ogni giorno è certo maggiormente amplificata quando si è soli) ma anche la gabbia che questa solitudine negli anni ci ha costruito intorno: abbiamo paura di mostrarci vulnerabili, temiamo il giudizio se ammettiamo di stare male proprio a causa della solitudine, l’orgoglio non ci permette di dire ad alta voce che abbiamo bisogno di stare con gli altri e chi è un po’ meno solo non sa da che parte “inserire” nella sua vita coloro che chiedono aiuto, per paura che la sua esistenza – basata sull’autonomia – vada in pezzi.
E poi chi chiede aiuto e vicinanza, spesso, le vuole “alle sue condizioni”, quasi con pretesa di risarcimento da chi, ai suoi occhi, sta meglio in quel momento.
Ri accettare l’interdipendenza costitutiva tra esseri umani (e con il mondo e la natura), che mai era tramontata ma che ci eravamo illusi di avere superato, ritrovare linguaggi e pratiche perchè questa relazione si esprima, sia possibile e sia tollerabile e soprattutto generi circoli virtuosi di nuove relazioni (affettive, di aiuto, economiche, sociali,…) richiede una scelta sia di chi ora è più esposto alla sofferenza sia di chi la accoglie.
Perchè anche chi chiede non potrà solo pretendere ed imporre ciò che chiede e chi accoglie dovrà accettare di aprire le maglie della sua vita e della sua persona per fare spazio all’altro e lasciarsi interrogare, spiazzare, cambiare.
Senza disponibilità al cambiamento, senza accettazione della vulnerabilità reciproca che è il terreno su cui si crea la vicinanza, la reciproca appartenenza, non c’è permeabilità e non c’è incontro possibile. c’è solo maggiore disperazione e rabbia, che chiude e distrugge.
E questo processo chiama alla messa in gioco di tutti gli attori coinvolti: ognuno dovrà “metterci del suo” , sacrificare un po’ quell’io ipertrofico di cui siamo tutti portatori (per nulla sani) che ci sta portando a faticare, e ricominciare da lì. Praticare il dialogo, meditare sull’interdipendenza di tutti da tutti e da tutto, prendersi cura prima ancora che chiedere cura possono essere dei buoni punti di partenza.
Aprendosi ci si può salvare, chiudendosi credo si vada sempre più a fondo. e non è colpa del distanziamento sociale: ci eravamo già isolati prima e ora è tutto solo più ferocemente chiaro.