Tentiamo in tutti i modi di non pensarci, la verità è che prima o poi dovremo fare i conti con la morte. La verità è che per imparare a morire, bisogna imparare a vivere.
Siamo analfabeti nel parlare della morte
Da un lato la morte è ostentata in tutti i modi, ma è negata nei nostri discorsi più autentici e più intimi. Non abbiamo più la capacità di stare in questo argomento e quindi di trovare le parole, le posture, i gesti, il silenzio che competono invece a temi così importanti e che ci riguardano tutti. È un analfabetismo dato dal fatto che siamo scappati da una cornice, da un contesto che ci ha lasciati senza parole, ritmi, riti, gesti e quindi proviamo un grande imbarazzo nel parlarne, rischiamo di dire le parole sbagliate o di scappare per paura di essere in qualche modo contagiati da qualcosa che ci terrorizza.
Come imparare a vivere
Perché è l’unico modo per vivere in maniera vera e intensa il tempo che abbiamo, le relazioni che viviamo, è il modo per radicarsi senza pensare sempre che la felicità, il destino o quello che vogliamo essere si manifesterà in un futuro indefinito. Aiuta a vivere il tempo presente, a rendersi conto che ogni momento è speciale, unico e irripetibile, altrimenti viviamo come eterni e questo non ci permette di esistere appieno.
Una filosofa in ospedale
Aiuta il paziente a tenere una cornice di senso rispetto a quelli che sono gli interventi terapeutici, soprattuto in merito alle scelte che deve prendere con la sua famiglia sulla qualità della vita, sul significato che dà alla fase finale o comunque alla malattia dove necessariamente vengono rivisti i valori di riferimento, per esempio i concetti di destino, di felicità, di libertà. Tutto viene rimesso in discussione e questo richiede in maniera forte la necessità di un nuovo senso che si declina in scelte terapeutiche, in scelte sul dove morire, come morire, con chi morire che sono evidentemente molto forti e che non trovano quasi mai risposte nella medicina o comunque in chi è abituato a curare il corpo e non lo spirito.
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