Nascere non basta.
È per rinascere che siamo nati.
Ogni giorno (Pablo Neruda)

 

Tornare alla vita, a una vita rigenerata, è sempre possibile; ri-sorgere come il sole in una nuova alba è un’opportunità quotidiana; tornare alla luce dopo il buio è necessario per vivere al meglio e questo può e deve accadere più e più volte nella vita. E quando si rinasce la gioia di esistere si percepisce chiaramente, insieme al timore di essere ancora fragili.
Ri-nascere si rende tanto più possibile quanto più si riesce a stare nella tensione tra l’attesa fiduciosa che la nuova nascita si darà nuovamente, e il coraggio che scaturisce in noi quando si sente che la vita chiama ad uscire dal buio della sofferenza, del dolore, della paura. Lo sbocciare di un uomo, richiede un fare e un lasciar essere, scrive Luce Irigaray.
Fortunatamente possiamo fidarci, ci dice Hanna Arendt, della nostra suprema capacità di dare inizio e di porci come inizio, dando vigore alla nostra vita activa che costituisce sempre un’apertura alla potenzialità vitale che è in noi. C’è un cominciamento, ci dice lei, ci sono processi creativi che chiedono di esprimere le loro eccezionali potenzialità. Questo è lo specifico dell’essere umano: siamo al mondo grazie ad un inizio -che è la nostra nascita – e siamo al mondo per immaginare e creare nuovi inizi, grazie alla nostra possibilità e capacità di un agire creativo e libero.
Maria Zambrano esprime questi stessi concetti citando lo stupore di essere vivi: l’essere umano è prima di tutto un nato, e da lì la vita può solo dispiegarsi, creare, relazionarsi con gli altri e il mondo. Nasciamo per così dire, provvisoriamente da qualche parte; soltanto a poco a poco andiamo componendo in noi il luogo della nostra origine, per nascervi dopo, e ogni giorno più definitivamente (Dalle Elegie Duinesi di Rainer Maria Rilke)

Questi pensieri filosofici possono cementare in noi la speranza che ogni momento in cui la vita ci arresta, o noi ci arrestiamo nella vita, è solo un momento di sosta, di chiusura, di buio, di fatica cui seguirà una nuova forma di vita, magari inizialmente sconosciuta anche a noi. Mentre viviamo nella speranza è come se fossimo ancora dentro ad un uovo, nel tempo e nel luogo in cui tutto è possibile ma tutto pare anche altrettanto impossibile. È il momento in cui c’è il desiderio della vita che rinasce, ma c’è il timore che la vita non ritorni, o che rinasca ma non come la desideriamo, o come potremo sopportarla.

La paura e la speranza sono presenti insieme, intime, inseparabili. Per questo serve anche saper attendere, stare nella solitudine che dentro l’uovo o dentro la notte dell’anima si impone, ma custodendo la certezza di essere attesi dalla vita, dal mondo, dagli altri.
La solitudine è necessaria per rinascere e, dice Eugenio Borgna, «non coincide con l’isolamento: essa è una struttura portante della vita ed è sempre aperta al futuro, all’avvenire, alle attese e alla speranza. Ed è aperta al colloquio interiore che apre e riaprirà al mondo, alla trascendenza di sé. L’isolamento invece è un’altra cosa: chiude in se stessi, nega la speranza, scompone e sfalda il tempo che si pietrifica». Nella solitudine resta l’auspicio che prima o poi l’uovo si schiuderà, entrerà in esso la luce, qualcuno ci accoglierà nella nascita, il timore della morte dell’anima sarà nuovamente vinto e, timidamente o con prorompenza, la vita chiederà di nuovo di dispiegarsi.

Si è stati fermi, richiusi in sé, sconfitti e inchiodati magari dalla fatica, ma ora la speranza e la gioia chiedono di essere di nuovo ospitate. Fragili e forti come solo loro sanno essere. Quando si rinasce c’è l’emozione e il fremito dell’inizio: la felicità che deriva dallo stupore di essere di nuovo vivi e vitali, il risvegliarsi dei sensi, il cessare della vista offuscata dalla confusione e dal timore, che lascia spazio ad uno sguardo terso, lucido, che vede la luce .
Il buio, il baratro, la confusione o il dolore sono ancora lì, vicini, se ne sente ancora il brivido di paura che provocano, l’ombra fredda che si è appena lasciata è solo a un piccolo passo da noi, si ha il timore che ci catturi e risucchi nuovamente, ma ora c’è altro, c’è una direzione, c’è una luce a cui esporsi e da cui farsi attrarre. E così la sofferenza può farsi non solo voce del dolore che inchioda, ma esprime il suono che evoca il travaglio del parto, altrettanto doloroso ma orientato alla nuova vita, trasformata, rigenerata, di nuovo germogliata.

Don Tonino Bello, sacerdote pugliese, scrisse sulla Pasqua parole utili e belle per credenti e non: «C’è una frase immensa, che riassume la tragedia del creato alla morte di Cristo: “Da mezzogiorno al le tre del pomeriggio, si fece buio su tutta la terra”. Forse è la frase più scura di tutta la Bibbia. Per me è una delle più luminose. Proprio per quelle riduzioni di orario che stringono, come due paletti invalicabili, il tempo in cui è concesso al buio di infierire sulla terra. Ecco le sponde che delimitano il fiume delle lacrime umane. Ecco le saracinesche che comprimono in spazi circoscritti tutti i rantoli della terra».

Allora esercitiamoci ad accettare di rinascere più e più volte, oggi, domani e ancora e ancora. Riguardiamo alla nostra vita e ritroviamo quei momenti in cui siamo tornati a vivere dopo una sconfitta, una sofferenza, una sosta faticosa. Per ritrovare la speranza e la vitalità, la possibilità e l’opportunità che ciascuno di noi ha di ricreare nuove inizi, pur nella fatica o nell’instabilità di ogni inizio e di ogni esistenza.

Vi invito quindi a compiere questo piccolo esercizio: ascoltare e meditare una canzone che parli di rinascita e lasciate che dialoghi con voi.

Questo articolo è stato pubblicato il 17 aprile 2017 sulla 27 ora del Corriere della Sera