Attingo ormai abbastanza facilmente e con una certa confidenza dal mio mondo interno, dall’esperienza, che sempre mi interroga e mi stimola.
Raramente qualcosa che vivo mi lascia indifferente, anche se a volte lo vorrei, lo ammetto.
Ma ci ho messo anni a fare pace con la mia sensibilità che per tanto tempo ho sentito come un difetto e una diversità di cui ero portatrice affaticata; c’è voluto del tempo per imparare a convivere con la mia necessità di praticare il dubbio e la meraviglia che per decenni sono stati la fonte della mia inquietudine e della mia ricerca esistenziale, spesso declinata in una chiave spirituale di ricerca di senso e orientamento del vivere.
Poi, lentamente e non senza le fatiche che precedono qualsiasi parto, ne ho fatto anche un mestiere che amo: ascolto le inquietudini altrui, scrivo di loro e di quelle che ancora sono le mie, continuo la mia ricerca e resto felicemente rassegnata un’antenna che capta più o meno consapevolmente ciò che mi accade intorno.
La scrittura è diventata uno dei modi che ho per prendermi cura di me, per distendere il pensiero e dare ordine alle emozioni e alle inquietudini, per dare orientamento alle domande sull’esistenza e trovare così una direzione sempre più consapevole al mio vivere, anche quando pare confuso o incerto.
E spesso questo dare forma e nome alle questioni della vita, che con sfumature e impatti differenti riguardano tutti, non solo aiuta me che scrivo a sentirle trasformabili e più tollerabili ma – ora lo so – aiuta altri a fare lo stesso, riconoscendosi nelle mie parole, usando il mio sguardo per allenare il proprio, sentendosi meno soli e dispersi nella ricerca di senso a cui l’essere umano è destinato.

Noi siamo i più feroci giudici di noi stessi, si sa. Da 20 anni dialogo con le persone nel mio studio e non solo e son sempre più convinta che, prima di tutto, è importante che ciascuno di noi si dia un tempo in cui ascoltarsi con disponibilità e senza giudizi eccessivi che paralizzano, per conoscersi e fare pace con se stessi.
E quando riusciamo a non essere così ingiusti e duri con noi, quando accettiamo chi siamo e cerchiamo con compassione e gentilezza di darci un forma differente da quella che ci impedisce la quiete o il disorientamento, viviamo meglio, con più leggerezza.
Questo vale anche nelle cose da fare: io quando riesco a scrivere autorizzandomi a dire con semplicità e senza troppa vergogna ciò che penso e ciò che vedo, a modo mio, vedo nascere i pezzi migliori e provo un grande piacere nello scriverli. Quando, invece, cado nel gioco del giudizio, nella trappola delle (presunte o reali) aspettative su di me, nelle paure del fallimento ( in base a quale parametro non è mai chiaro!) … mi blocco, il testo è artificiale e poco profondo, io sono sfinita dalla prova di forza che ne risulta.

Quando trovo e accetto la “mia voce”, il mio stile, nella scrittura ma anche nella formazione, in studio nei dialoghi con le persone o alle conferenze e mi concedo di essere appassionata, fragile, evocativa, intensa: accetto di sentire e restituire le bellezze e le tragedie che sento e che vedo, che accolgo nei racconti altrui e cerco di custodire e restituire con rispetto e delicatezza perchè si trasformino in qualcosa di sostenibile e portino a una rinascita desiderata da sempre.
Questo è il mio modo di vivere e lavorare, questa sono io.
E auguro a ciascuno di poter trovare il suo stile di vita e di lavoro, la sua voce, il suo sguardo, di autorizzarselo e incarnarlo: avendo sempre cura di sè, degli altri e della natura.

p.s.: nella foto sono al Kum festival di Recalcati ad Ancona