L’esistenza è inesorabilmente libera, quindi si dipana e procede in maniera imprevedibile, non predefinita. Questo vissuto di libertà progettuale può essere vissuto tanto come meraviglioso, quanto come terrifico. Il percorso che propongo e pratico, parte dal presupposto che la morte vada integrata nell’esistenza, che bisognerebbe fare propri i conflitti ontologici che ci abitano e ci caratterizzano, al fine di poter vivere meglio la vita, al fine di vivere una vita più autentica, che sappia abitare, oltre che il terrore, la meraviglia del vivere, che possa essere vissuta all’interno di legami più profondi e sinceri, e che trovi il proprio senso biografico. «Malgrado la concretezza della morte distrugga l’uomo, l’idea della morte lo salva.» Questo è esattamente quanto ritroviamo nel pensiero di Martin Heidegger e di molti filosofi: l’idea della morte conduce l’uomo a un livello di vita diverso e più autentico rispetto alla vita che non ha consapevolezza della morte. La vita priva dell’idea della finitudine, l’esistenza privata della morte perderebbe in importanza e in intensità: le piccole cose del vivere, quelle che fanno di una vita una vita concreta perderebbero senso e bellezza. Spesso infatti si è alla ricerca dello straordinario perché si fa fatica a vedere la meraviglia nelle cose ordinarie dell’esistenza. La straordinarietà non sta certo nel come le cose sono, ma che le cose sono. La vita, di fronte al limite insito in lei, è una vita che definisce le proprie priorità esistenziali, è una vita che dà senso al tempo presente, è una vita che apprezza le piccole cose di ogni giorno, è una vita che porta a comunicare più sinceramente e profondamente con chi si ha vicino. È una vita che assume come stile quello della cura di sé e dell’altro, che permette di condividere la paura e il dolore (Laura Campanello Sono vivo, ed è solo l’inizio, Ugo Mursia Editore, pag.24)
Photo by Toby Elliot – Unspash