Credo che i ragazzi delle scuole medie debbano e possano sperimentare l’autonomia e la fierezza che deriva dal fare brevi tratti in autonomia.

Il dibattito intorno ai figli che tornano o meno a casa da soli si sta scatenando e fondamentalmente mi trovo d’accordissimo – sia come psicopedagogista sia come madre – con coloro che sostengono che i ragazzini delle scuole medie debbano e possano sperimentare l’autonomia e la fierezza che deriva dal fare brevi tratti casa scuola e scuola casa, magari tra loro, ridendo e chiacchierando. Condivido anche che sarebbe bello che i genitori imparassero a fidarsi dei figli e a lasciarli un po’ liberi e responsabili. Ma la questione ragazzi che tornano a casa da soli o meno, è connessa a molte altre dimensioni che si toccano a vicenda, inevitabilmente. Quando ti senti dire – già 6 anni fa – da un dirigente scolastico, dopo aver chiesto in un’assemblea se tuo figlio potrà uscire da solo da scuola: «Certo, purché firmi il modulo che mi solleva da ogni responsabilità e che se finisce sotto un camion non viene a piangere da me!» c’è qualcosa che non va.

Vorrei che una ministro non avesse come unico problema il rispetto di una legge – forse ormai vecchia e superata – e la tutela delle istituzioni da responsabilità legali, ma avesse a cuore come possiamo far sì che una città e una società siano più a misura di ragazzi, che chiedono solo di crescere autonomi, non eccessivamente a rischio di essere investiti, non prigionieri di adulti troppo preoccupati e stanchi delle loro complicate esistenze.

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